Belfast boy. Una storia inedita di George Best. Intervista all’autore Stefano Friani

È stato il quinto Beatle, vivendo sotto gli occhi di tutti molte vite in una sola: ragazzino terribile vicino ai Busby Babes, poi la coppa dalle grandi orecchie, il declino, gli altri club, la nazionale, e sempre l’alcol a fiumi, le donne, le auto e i soldi sperperati. Figlio di un portuale orangista e di una madre alcolizzata. Di George Best si è visto e detto quasi tutto. Belfast boy. Una storia inedita di George Best è una novità in questo senso. Scopriamo cosa è possibile trovare nel libro con l’ntervista all’autore Stefano Friani
Cosa significa e rappresenta per te George Best?
Quello che rappresenta per tutti in fondo, in questo non credo di essere speciale o che il libro che ho scritto su di lui mi permetta di ambire a una qualche vicinanza maggiore rispetto a chi lo ama soltanto perché lo ha visto immortalato nelle t-shirt vicino a un epigramma da eroe hollywoodiano o perché gli è capitato sott’occhio una compilaton di skill su YouTube.
George Best è stato un calciatore irripetibile – come però in fondo si potrebbe dire di Macellari o Firicano, perché ciascuno di noi è irripetibile a modo suo – che ha segnato una generazione (e in questo Firicano e Macellari magari meno ecco) e ha rappresentato in maniera sublime anche un po’ nella sua parabola umana quello che è successo dal dopoguerra ai giorni nostri.
È stato imprendibile in vita, forse lo è tuttora da morto. Io ho solo cercato di raccontarlo.
Come e quando nasce la voglia di scrivere un libro su di lui?
BELFAST BOY nasce da una partita di calcetto in cui un collega che lavorava in una casa editrice, che ha una importante collana dedicata ai grandi del calcio, ben consapevole della mia monomania per il calcio inglese, mi ha chiesto un libro su George Best.
Io non è che avessi questa intenzione tambureggiante dentro me di mettermi a scrivere ma Best mi sembrava un crocevia perfetto per esorcizzare certe mie psicopatologie legate al calcio.
Lo sport e il calcio in particolare è un collante incredibile fra generazioni, classi sociali, paesi, etnie, quello che più vi piace, e quindi si presta meravigliosamente – fin troppo bene ahinoi tutti – all’essere adoperato come metafora.
Volevo scrivere di questo, credo. Inoltre, George Best aveva giocato in una miriade di squadrette, era andato a sbattere in Sudafrica e in Australia, a Hong Kong e in America, insomma, c’era tutta una parte della sua carriera che si conosceva pochissimo e che mi interessava approfondire, al di là dei lustrini dell’èra Manchester United.
Aveva giocato anche nel Fulham, per giunta, che era ed è la squadra per cui esercito quella attività deteriore chiamata tifo. La qual cosa, come si capirà, mi permetteva di dispiegare tutta una serie di informazioni di cui disponevo e che era molto difficile far cadere con naturalezza a un aperitivo.
Ora sono informazioni alla mercé di chiunque abbia intenzione di sborsare 17,90 euro per assicurarsi il libro e io sono esautorato, finalmente, dal doverne far sfoggio davanti a rice cracker e spritz annacquati.
Fra quella richiesta al calcetto (aveva ragione l’ex ministro Poletti che si trova lavoro solo giocando a pallone in Italia) e la pubblicazione del libro sono passati quattro anni, il libro nel frattempo ha cambiato editore perché il progetto era lievitato diventando una specie di opera monstre e insomma, eccoci qui.
Parli di una storia inedita. Si è scritto tanto su di lui. Su cosa ti sei concentrato in particolare e perché?
Quello è stato il sottotitolo scelto dall’editore, che mi piace – devo dire – soprattutto per la sua tautologicità. Ogni storia è inedita finché non te la pubblicano.
Questa sicuramente lo era, e forse lo era anche perché quasi tutti quelli che avevano scritto di George Best, lui compreso, si erano concentrati sulle luci e meno sulle ombre.
Comprensibilmente, eh, per carità. A tutti poi – mi pare – era sfuggito l’elemento collettivo dell’esperienza personale e privata di George Best. Soprattutto era sfuggito a lui, ma quella è una consapevolezza che in pochissimi hanno e che magari viene fuori negli anni.
La moda, le serate, le auto e le belle donne. Un lato oscuro ed uno cristallino in campo. La folla al suo funerale racconta comunque di una leggenda entrata nel cuore di molti. In cosa è stato unico George Best?
George Best è stato unico nella sua irrequietezza, nella frenetica mobilità in campo e fuori.
La sua era un’intelligenza viva, quella di un ragazzo working class cresciuto in una città tosta come Belfast. E a tal proposito di sicuro è stato l’unico a unire l’Irlanda, molto più di quanto non siano riusciti altri artisti, politici o sportivi.
Al suo funerale c’erano orangisti e cattolici, tifosi dei Rangers e del Celtic (squadre di cui aveva vestito le maglie seppur non da primattore).
Irvine Welsh una volta ha fatto quattrocento miglia di autostop per vederlo giocare con la maglia dei suoi Hibs e poi George non si è neppure presentato all’appuntamento. Fideisticamente, anno dopo anno, in tanti hanno voluto George Best nella propria squadra e ogni settembre gli veniva offerta una chance di redenzione.
A ben guardare, insomma, George Best è stato il calcio, questo strano rito a cui siamo tutti appassionati.
In campo e fuori, sbagliamo a dire che Best ha segnato un’epoca o meglio ha sancito una rottura netta con il passato aprendo la strada alla figura e profilo del calciatore – divo?
Per qualche strambo motivo oggi George Best viene ricordato soprattutto dai vari bomberisti che lo apprezzano soprattutto come playboy e pure da nostalgici incalliti, gente che vorrebbe fossilizzare il calcio in una supposta e mai esistita età d’oro in cui tutto andava come dove andare.
Spesso fra queste due figure esiste una bizzarra sinergia. Tuttavia, questa è una ricostruzione a dir poco sentimentale e sbagliata, visto che, come suggerivi giustamente tu nella domanda, George Best è stato certamente il calciatore che ha traghettato questo sport dal bianco e nero al colore.
In questa sempreverde tirannia del passato contro il moderno, Best è tirato per la giacchetta, ma ci si scorda che è anche e soprattutto stato il primo dei calciatori fotogenici e metrosexual, uno attento al look e sempre alla moda, pure quando non lo era più.
Per non dire del fatto che del tutto ragionevolmente era attento al suo conto in banca, che mi pare il maggior rimprovero che si muove oggi pauperisticamente ai figli del popolo che diventano calciatori. Se non fosse stato un calciatore probabilmente avrebbe fatto lo scrittore di gialli, oppure l’attore, in fondo la faccia era quella di uno che apre i titoli di coda.
Se dovessi tracciare la sua parabola in 5 istantanee, quali sceglieresti e perché?
Per un iconografo by trade come il sottoscritto (chissà se è scritto sopra stavolta), lavorare sulle immagini di George Best è una gioia. Il libro ne ha alcune al suo interno e non vorrei rovinare la sorpresa a chi legge o a chi lo sfoglierà solamente.
Comunque dovessi sceglierne cinque ci metterei sicuramente la scena in cui un po’ impacciato e timido lo vediamo ballare The Last Time dei Rolling Stones a Top of the Pops nel 1965 a cui potrebbe fare da contrappunto l’immagine di lui con gli occhi lucidi e un completo color vomito da Terry Wogan venticinque anni dopo, quando ubriaco perso dirà «Terry, I like to screw, right». In quell’arco di tempo si consuma il suo rapporto coi media sotto gli occhi di tutti noi.
C’è poi quell’immagine in cui infangato con la maglia verde smeraldo dell’Irlanda del Nord abbandona il campo dopo essere stato espulso contro la Scozia, che mi pare benissimo condensare tutto il suo rapporto e con la nazionale e con il suo paese d’origine.
Per gli Stati Uniti potremmo prenderne a decine di foto, da quella serie in cui si ritrova su un campo sintetico accanto a un impresentabile Elton John al suo arrivo in pompa magna nella terra del latte e del miele con una maglietta che recita who the hell is george best?
Ne metterei sicuramente una con la maglia del Manchester United, forse quella in cui sfinito abbraccia il palo dopo aver messo a sedere mezzo stadio e segnato il sesto gol al Northampton Town.
Ma forse la mia preferita rimane quella che abbiamo scelto per la copertina, lui che gioca con dei ragazzini sotto al cielo grigio che l’ha visto nascere e correre, nel bel mezzo di una città che si sarebbe trasformata nel giro di pochi anni in un teatro di guerra. Ci sarebbe anche quella del funerale, ma lì manca lui. Vabbè sono già sei così, ma togliamo quelle con Elton John.
Per concludere, cosa ha lasciato in eredità Best al mondo del calcio?
Di sicuro sappiamo che non ha lasciato in eredità nulla all’unico (?) figlio, mentre al mondo del calcio si spera che la sua eredità non sia semplicemente una lista di aneddoti e battutine à la Wilde – che pure noi arbasineggianti molto apprezziamo – né possibilmente la terribile vicenda di un uomo vittima dei suoi stessi vizi utilizzata da allenatori di quart’ordine e giornalisti sportivi (che basta da solo come insulto) come cautionary tale per i vari Zaniolo che negli anni sempre si succederanno.
Col libro ho cercato, nei limiti del mio mandato, di riequilibrare il discorso attorno a George Best dentro e fuori dal rettangolo da gioco. Di lui rimarranno i gol, le finte, le sbronze, le foto con le conigliette di playboy e un sacco di altre cose. Almeno finché non ce ne dimenticheremo, e capiterà pure con lui, capita con tutti.