venerdì, 19 aprile 2024
CULTURE

GIVE BACK: storie di calciatori socialmente responsabili

Il libro nasce all’inizio del 2021, quando i tre autori iniziano a condividere le rispettive esperienze e visioni riguardanti lo sport e le sue potenzialità in ambito sociale. L’unicità di questo libro è nel raccontare il calcio attraverso i progetti che vanno oltre il campo e abbracciano temi fondamentali come ambiente, attenzione ai più deboli, parità di genere, lotta al razzismo, solidarietà.  La formazione che ne scaturisce è un dream team del quale, con un po’ di superbia, gli autori si sono auto-nominati allenatori. Abbiamo intervistato gli autori Mario Rucano e Stefano D’Errico, il terzo è Valentino Cristofalo,  per scoprire un pò di più sul libro.

Come nasce l’idea del libro?

Durante il lockdown Mario contatta Valentino e Stefano, che segue su LinkedIn anche tramite la pagina Community Soccer Report, in cui periodicamente analizzano le iniziative dei Club calcistici europei legate alla responsabilità sociale.

La domanda di Mario è semplice: “Avete mai pensato a raccogliere un po’ di storie di Calcio Socialmente Responsabile e metterle in un libro?”. La risposta è immediata e spontanea: “Non ci abbiamo mai pensato ma l’idea ci piace”.

Detto, fatto: a inizio 2021 iniziamo una serie di incontri virtuali in cui piano piano la formazione prende forma.

Come è avvenuta la selezione dei calciatori?

Ci siamo auto-nominati allenatori di questo dream team e da subito abbiamo deciso lo schema di gioco: non ci interessavano i gesti di beneficenza fini a se stessi e fatti a favore di telecamera. Siamo andati piuttosto alla ricerca di progetti concreti, che avessero un ragionamento alla base e un obiettivo concreto.

In questo senso, il primo nome che ci è venuto in mente è stato quello di Astutillo Malgioglio, un vero e proprio pioniere della responsabilità sociale legata al calcio. A quel punto abbiamo trovato la risposta alla domanda che ci siamo fatti fin dall’inizio e cioè “Bella l’idea, ma quante storie raccontiamo?”. Dopo aver concordato sulla storia di Malgioglio ci siamo detti “Beh, il portiere ce l’abbiamo: ne mancano solo altri dieci e la squadra è pronta!”.

Così abbiamo fatto, cercando di rispettare un minimo di tattica e creando un 3-4-3 innovativo e spregiudicato. Che si tratti di aiuto verso la propria comunità o di grandi temi come l’attenzione all’ambiente e i diritti delle minoranze, le pagine del libro raccontano un pensiero, un intento comune: quello di restituire agli altri una parte del “bene” ricevuto dal calcio. È questo il fil rouge che lega i protagonisti del nostro libro, che ha finito per diventarne anche il titolo. Give Back vuole avere proprio questo significato: la consapevolezza di essere dei privilegiati e, insieme, il desiderio di volersi mettere a disposizione.

Cosa significa per voi essere “Calciatori socialmente responsabili”?

Nelle prime pagine del libro abbiamo provato a tracciare un profilo del calciatore moderno, passando in rapida successione le varie fasi storiche del calcio in Italia dal dopoguerra ad oggi.

Ci siamo accorti di come i giocatori di Serie A siano passati col tempo dall’essere dei lavoratori a cottimo, seppur lautamente retribuiti, a lavoratori “pensanti” che richiedono ed ottengono diritti con la nascita dell’Associazione Italiana Calciatori. Quello è un primo punto di svolta, la nascita di una “coscienza di classe” anche nel calcio.

Dagli anni ’80 in poi c’è un secondo elemento di novità, quella che potremmo chiamare una “coscienza sociale”: per la prima volta i giocatori capiscono di poter utilizzare la propria visibilità per mandare messaggi che vanno oltre il mondo del pallone.

Per la prima volta lo sguardo del calciatore non è più rivolto all’interno, verso i suoi simili, verso il suo gruppo. Gli occhi guardano lontano, all’esterno di quel mondo spesso dorato e distante dalla vita reale che è la carriera di giocatore di calcio. Spesso tutto questo comincia con un esame di coscienza, o anche solo un ricordo della propria infanzia: la fatica fatta da bambini, i sacrifici necessari per arrivare al successo, sono spesso la spinta a voler aiutare chi, nella lunga scalinata verso la vetta, è rimasto indietro.

Da qui comincia la storia che ci interessa. Da qui nasce il Calciatore Socialmente Responsabile.

Qual è il messaggio o meglio il focus sul quale vi siete concentrati, cosa volete comunicare?

Viviamo un’epoca piena di esempi negativi legati al calcio: ragazzini milionari che col primo stipendio sembrano dimenticare il famigerato “mondo reale” ed essere interessati solo a collezionare belle macchine, fidanzate appariscenti e contratti al rialzo.

Lo vediamo anche noi e non avrebbe senso negarlo. C’è però un salutare lato B di questo disco, ed è quello che vogliamo far suonare a tutto volume. Pur avendo esperienze e vissuti diversi tra noi, ci siamo subito trovati d’accordo nel voler rifiutare il facile luogo comune per cui il calciatore di oggi vive nella propria torre d’avorio.

Le eccezioni non solo ci sono, ma negli ultimi anni si stanno moltiplicando. L’undici che si è guadagnato la maglia di titolare nel nostro libro ha dovuto superare una dura selezione, segno che i protagonisti di queste pagine non sono mosche bianche, ma testimoni di un movimento in continua crescita.

L’esempio migliore rimane a nostro parere il concetto di platform, un termine inglese che sta ad indicare sia la visibilità di cui gode il calciatore, sia il seguito di tifosi e appassionati. In altre parole: in tempi di social, tutti sono interessati a quel che fa il campione.

Sta a lui decidere cosa comunicare: se limitarsi a mostrarsi alla guida dell’ultima fuoriserie o se confrontarsi con temi più alti. Per fortuna, sempre più sportivi lavorano fuori dalla loro comfort zone per invertire la direzione della freccia del messaggio: non guardate me, andate oltre per conoscere persone, iniziative, cose di cui magari, senza la mia visibilità, non vi accorgereste.

Il calciatore smette di essere fine e diventa mezzo. Questa ci sembra la sintesi più efficace.

Stefano D’Errico

Un altro aspetto sicuramente importante che abbiamo voluto trattare, in maniera meno diretta ma comunque diffusa, è il concetto di Give Back (non a caso scelto come titolo).

È stato interessante notare come la volontà di “restituire” agli altri la fortuna ricevuta, minimo comune denominatore di tutte le storie, si manifestasse in maniera del tutto diversa. Per gente come Marcus Rashford o Sadio Manè, è stato evidente come fossero spinti dal desiderio di non far vivere agli altri ciò che loro hanno vissuto.

Tuttavia, come detto, questa non è emersa come l’unica ragione, sdoganando un po’ quel credo comune per cui solo se si è passati attraverso le difficoltà si ha la credibilità per trattare certi argomenti. Per giocatori come Bellerín o Flamini (con il secondo un po’ “mentore” del primo ai tempi dell’Arsenal), è stato un percorso fatto di diverse esperienze che ne hanno accresciuto la coscienza interiore. Per altri, una questione culturale per cui si sono fatti portavoce. Insomma, motivazioni diversificate ma non per questo non valide, che lanciano un messaggio ai colleghi: tutti hanno la credibilità e il potere di fare qualcosa.

Come racconteresti ad una persona che non conosce il calcio questo libro? 

Paradossalmente, è probabile che il libro possa interessare più un appassionato di temi di responsabilità sociale di un “semplice” tifoso di calcio. Anche chi non segue lo sport di cui invece tutti noi siamo innamorati, ne riconosce comunque l’enorme visibilità e quindi può capire la sinergia che può nascere da mondi a prima vista così lontani come calcio e responsabilità sociale. Torniamo al concetto di fine e di mezzo: se l’obiettivo è sensibilizzare le persone sulla lotta all’inquinamento e sui pericoli del riscaldamento globale, quale migliore cassa di risonanza dello sport più seguito al mondo?

Se poi il “non appassionato” è scettico verso il calcio proprio per la sua apparente distanza dal già ricordato “mondo reale”, il libro sembra fatto apposta per smentire il pregiudizio, portando undici prove a supporto della tesi difensiva. Sempre più spesso il calciatore del terzo millennio è parte della soluzione e non del problema.

Tra tutti i calciatori citati, quali sono i due tuoi preferiti e perché?

Non posso non citare nuovamente Tito Malgioglio per la serietà, la riservatezza e la costanza di un impegno che porta avanti in prima persona da più di quarant’anni. Il modo in cui il mondo del calcio l’ha trattato, limitandosi ad accettare passivamente la sua attività di aiuto a ragazzi disabili, quando non osteggiandola apertamente, è una ferita ancora aperta per tutti gli amanti di questo sport. L’auspicio è che la sua perseveranza sia stata d’esempio, e che quello stesso mondo anni dopo abbia capito che da persone del genere si ha sempre e solo da imparare.

Arrivando ai giorni nostri, mi piace ricordare la storia di Megan Rapinoe, capitana della Nazionale statunitense di calcio femminile e capofila nella protesta contro la propria Federazione, che per decenni ha sistematicamente sottopagato le calciatrici della Nazionale rispetto ai colleghi maschi, oltretutto a dispetto di risultati sportivi che non avrebbero potuto essere più diversi. Megan e le compagne sono da anni la squadra da battere a livello mondiale, mentre i colleghi a stelle e strisce a fatica riescono a qualificarsi alle fasi finali della Coppa del Mondo. Una lotta in nome di quell’Equal Pay che finalmente ha dato i suoi frutti proprio mentre stavamo ultimando il libro: siamo stati contenti di aver dovuto aggiornare il finale di quella storia: un indennizzo multimilionario per le calciatrici a sanare gli errori del passato, ma soprattutto l’impegno della Federazione a equiparare da qui in avanti premi e retribuzioni a quelli già riconosciuti alla Nazionale maschile.

Stefano D’Errico

Personalmente, anche e soprattutto per il mio percorso professionale in Inghilterra, dico Flamini e Marcus Rashford.

Il primo perché unico nella sua missione, davvero atipica. E’ passato dall’essere calciatore professionista a imprenditore – di successo – nel campo delle biotecnologie. Esempio concreto di cosa voglia dire tradurre nella vita di tutti i giorni quello che lo sport ti insegna in termini di lavorare sodo e con tenacia per raggiungere un obiettivo. E poi mi ha impressionato la sua determinazione, come se sapesse da sempre quello che sarebbe andato a fare. I compagni quasi lo deridevano quando usciva dallo spogliatoio in giacca e cravatta per incontrare ministri o CEO d’azienda, però su alcuni ha anche avuto un impatto positivo, influenzandone l’impegno sociale (da Bellerín a Ozi, passando per tutti i compagni coinvolti in varie iniziative).

Sul secondo, mi affascina il fatto che sia, tra tutti, quello più contemporaneo. E non parlo solo della carta d’identità, che è bene ricordarlo dirà 25 il prossimo ottobre. È il più “moderno” anche nel modo in cui affronta le sue battaglie, a colpi di tweet e appelli sui social. Rappresenta forse la nuova generazione dei calciatori socialmente responsabili, e l’effetto che ha avuto in Inghilterra sui giovani è stato incredibile (posso confermare personalmente che i suoi libri non mancano in alcuna scuola elementare di Londra). Un esempio per molti…

 

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